Gentili studenti e studentesse,
ho ricevuto fino a ieri sera risposte al questionario su Verg. Aen. II 1. Ho avuto modo di leggere osservazioni puntuali ed efficaci, dubbi pertinenti e qualche osservazione sbagliata a causa di errori di interpretazione linguistica.
Prima di tutto una considerazione di metodo. Quando si traduce (o si valuta una traduzione) bisogna aver chiari certi riferimenti:
- si deve conoscere la struttura grammaticale/sintattica della lingua di partenza (latino) e di arrivo;
- si deve tener conto del tipo di testo da tradurre o tradotto (poesia);
- del suo genere (epos) e conseguentemente del suo registro stilistico (alto).
Questi presupposti ci aiutano a liberarci dalla equivoca antitesi “traduzione letterale/libera”.
Teniamo conto innanzitutto del secondo punto: la parola poetica
- è suggestiva/evocativa oltre che denotativa;
- può ricevere un incremento di significato dalla sua collocazione nel verso;
- ciò produce una connotazione (affettiva, icastica, allusiva etc.) che si aggiunge al significato prodotto dal mero rapporto logico (cioè dal mero nesso sintattico) tra le parole.
Gli errori che si compiono traducendo, cioè sono omissioni relative a tutti e tre questi parametri (linguistico, tipologico, stilistico).
Supponiamo di trovarsi davanti a:
Conticuere omnes et ora tenebant. Questa frase, che presenta una giuntura un po’ insolita nel suo secondo membro, non può che significare: “Ammutolirono tutti e trattenevano la voce”.
Dunque: una riformulazione, nel secondo membro, dell’immagine e dell’idea presentate nel primo, una riformulazione che però non è affatto pura ripetizione a causa dell’opposizione di aspetto tra i due predicati (conticuere/tenebant: un’azione che si realizza in un istante, portando la molteplicità a unità; il durare del silenzio che accompagnerà il racconto di Enea).
L’inserimento di intenti produce un turbamento di questa chiarezza del vedere e del comprendere da parte del lettore: ciò che viene ricevuto nella lettura è di più rispetto a prima, su entrambi i piani (vedere/comprendere), ma richiede un atto intuitivo che “muove” l’immagine, così come “si muovono”, di là dalle relazioni grammaticali/sintattiche, le relazioni tra le parole.
Dunque: intenti è collegato grammaticalmente a omnes della prima frase, ma appartiene sintatticamente alla seconda [et intenti ora tenebant]; la prima ci mostra il passaggio istantaneo da molteplicità a unità (il far silenzio – per così dire – all’unisono); la seconda si apre ripresentando i tutti come pluralità molteplice, cioè suggerendo la tensione di “ognuno”.
Quando la mente percepisce intenti, nella lettura lineare, si forma un’immagine determinata dal legame grammaticale di intenti con omnes, cioè l’immagine di una persona intera tesa in una qualche direzione; cosicché quando la lettura incontra clausola del verso, questa idea/immagine di tensione si completa e si specifica attraverso ora tenebant, ma intuitivamente, cioè senza che “per capire” ciò che leggiamo si debba passare per: intentique ora tenebant=intentaque [mi raccomando: os è neutro, non maschile!] ora tenebant.
Continuamente Virgilio richiede al suo lettore di partecipare alla costituzione del significato, ponendolo di fronte a situazioni in cui il suo testo plus significat quam dicit.
Intenti è dunque la chiave di volta del verso: introduce un’immagine di “tensione verso” [di qui l’esigenza di alcuni traduttori di completare con l’esplicitazione dell’oggetto di questo “protendersi”, cioè “lui”, Enea], che si aggiunge al quella del “tacere tutti insieme”, cui è vincolata dalla grammatica, immagine che poi si specifica attraverso ora tenebant. Ma in questo modo il testo, ripresentando i “tutti” come “ognuno” fa sentire l’impulso interiore, soggettivo, del “protendersi”, di cui il volto o lo sguardo è l’espressione.
Per me è da scartare la prima traduzione, che presenta un’immagine sola (il tacere) variata; sono invece da privilegiare quelle in cui le immagini sono due (tacere/protendersi), convalidate dal confronto con gli exemplaria [=modelli] greci; quella di Leopardi ha il pregio di presentare “fissi” in un modo che in un primo momento sembra riferirsi a “tutti” e poi si lega a “volti”. Nessuna traduzione rende in- di intenti (reso talora con “attenti”), cioè quel preverbio che suggerisce il protendersi fisico (come in Apollonio) di chi è singolarmente “magnetizzato” dall’oggetto dell’attenzione generale. E forse non è possibile farlo senza infrangere il risultato della traduzione nella lingua di arrivo.
Casali [vd. bibl. corso] scrive: «Si può considerare un esempio di ‘tema e variazione’ (la prima frase propone un concetto. la seconda lo rielabora cogliendone aspetti diversi»: il ‘tema’, di cui il secondo emistichio è la ‘variazione’, è il “prestare attenzione”, implicito in conticuere omnes». Ma direi che c’è di più: scena vista (prima frase), situazione vissuta (seconda frase), esterno/interno. In genere i commentatori rimandano a Omero e prescindono da Apollonio, secondo me a torto.
Vi invito a notare come una formulazione in superficie ripetitiva (tema e variazione) sia in realtà strumento di una mirabile sintesi (innanzitutto rispetto ai modelli con cui il verso è in dialogo; ma pensate anche a quante parole ho scritto per descrivere ciò che è presente in queste sole 5!). Questo è veramente il sigillo dello stile epico virgiliano: superficiale distensione, sostanziale densità, sempre effetto di ampiezza e profondità.