02/10/2018
Gli anni ’70 sono anni in cui cambia non solo la letteratura (letteratura come obiettivo che lo scrittore si propone); la narrazione è uno strumento che è funzionale al raggiungimento di un obiettivo, che nel caso del narratore è un messaggio che può essere pedagogico, denunciatario di un aspetto della realtà esistente, realistico/descrittivo, di inchiesta sociale.
Quando si legge un romanzo è bene chiedersi quale sia l’obiettivo del narratore. La specificità dello strumento (la lingua del testo) deve assecondare il raggiungimento dell’obiettivo.
La lingua scritta ha una natura diversa da quella parlata perché presenta obiettivi diversi; nel caso poi della lingua come strumento artistico la sfumatura è ancora differente e il suo grado di artefazione si calcola sulla base dello scarto tra questa lingua poetica e quella della comunicazione. Questo scarto può essere maggiore o minore, ma è una scelta del narratore che non è casuale. L’aderenza della lingua scritta a quella parlata è sempre un’operazione mimetica e ideologica del narratore; è importante sottolineare che stiamo parlando di imitazione che ha sempre il suo grado di artefazione.
Pasolini stesso definisce la sua raccolta di recensioni proprio “Descrizioni di descrizioni”, ma la descrizione chiaramente implica la soggettività di chi sta descrivendo, implica una prospettiva.
(Altri esempi) Montale “L’altro mestiere”, Parise “Verba volant” la scelta del titolo di raccolta di saggi critici ne connota il taglio; anche la critica letteraria esprime una soggettività.
Tra gli anni ’60 e ’70 gli sguardi del critico letterario si moltiplicano perché esiste la scuola strutturalista russa e francese, la linguistica, la semiotica, la narratologia, ecc.
Le prospettive attraverso le quali leggere un testo si moltiplicano perché una narrazione non è solo un documento, non ha solo una funzione realistica, ma in qualche modo ha una funzione interpretativa ed ermeneutica nei confronti della realtà. La narrazione si fa carico di interrogare e di interpretare la società o l’individuo che vive in essa, oppure si fa carico di interpretare il portato esistenziale e ideologico della realtà di cui la narrazione è una ricaduta.
Se la letteratura ha significato nella misura in cui compie una operazione di ermeneutica della realtà (interpretazione dei significati della realtà), la critica letteraria compie a sua volta una interpretazione ermeneutica dell’ermeneutica della realtà (anche perché i significati possono essere latenti). L’interrogazione e il reperimento dei significati del testo è la funzione della critica.
Gli strumenti della critica si avvalgono di un dialogo interdisciplinare dei saperi e negli anni ’60 assume una propria fisionomia sistematica e scientifica con la linguistica e lo strutturalismo. Ogni testo è struttura composta di elementi che si possono categorizzare e che vanno letti in funzione sia del loro reciproco dialogo sia della trasmissione del messaggio. Saper leggere la struttura di un testo ci consente una messa a fuoco dei suoi significati che un’analisi stilistica o linguistica o storico-letteraria non ci consentirebbe, soprattutto quando la struttura dei romanzi non è omogenea. Il carattere disomogeneo di un testo denuncia una frattura interna. Non è quello che il personaggio dice, è il perché lo dice e perché lo sta dicendo proprio quel personaggio.
In questa prospettiva diventa dirimente il rapporto del personaggio con l’autore.
Il dialogo che Pasolini istituisce come critico con il testo è di carattere totalmente empatico: lui non si avvale degli strumenti della critica strutturalista, esprime la propria soggettività di critico in colloquio con il narratore e quindi con l’autore e facendosi interprete del rapporto tra l’autore e il suo personaggio (ed è il personaggio che veicola la soggettività del narratore).
Ci sono due cose che connotano la scrittura critica di Pasolini: il colloquio con il lettore (è una scrittura interlocutoria, intima) e la denuncia palese della propria personalità, della propria soggettività ed intimità in relazione al testo e all’autore. Nelle sue recensioni si legge spesso dell’aneddotica autobiografica, è come se costruisse una propria autobiografia attraverso le recensioni letterarie (sia di intellettuale che di uomo), da una parte contestualizzando la recensione, legandola al momento storico e dall’altra riuscendo a metterla in prospettiva in un sistema di significati artistici e soprattutto sociali (è molto più sensibile all’interpretazione della realtà piuttosto che all’aspetto stilistico).
Pasolini sposta la propria dimensione militante e la investe nella critica letteraria, compiendo un’operazione intellettuale e culturale che non riguarda solo la letteratura ma i significati e la storia della letteratura in rapporto alla società.
Rispetto al sistema editoriale e al mandato del critico letterario come mediatore culturale oggi nella società mediatica ogni voce si autolegittima.
Negli anni ’70 la critica iniziava a sentirsi delegittimata. Prima, infatti, era una via obbligata e nella gerarchia dei saperi la critica veniva al primo posto (anche prima della letteratura, perché era il critico che “metteva al mondo” l’autore). La gerarchia negli anni ’70 comincia a sgretolarsi fino ad oggi in cui tutti si sentono legittimati a dire qualsiasi cosa (autolegittimazione collettiva). Oggi la dimensione dell’autorialità è garantita dalla disponibilità di un mezzo comunicativo. La scelta del mediatore oggi avviene su una base elettiva di rispecchiamento, non più sulla base dell’esercizio di una competenza. Questo scenario viene intravisto molto lucidamente da Pasolini, che lo definisce come una mutazione sociale e culturale nei confronti della quale si sentiva molto seccato. Questa mutazione era dovuta al consumismo che ha delle leggi che non convergono con quelle del sistema culturale precedente, perché le ragioni di mercato equivalgono le ragioni di un sistema culturale e intellettuale veicolato da alcune persone. Di fronte a tutto questo Pasolini anziché difendersi dietro la legittimazione della propria cultura e degli strumenti acquisiti fa il contrario: approda a un tipo di critica totalmente soggettivo.
Entra in crisi la funzione intellettuale e pedagogica (di mediazione).
Con il tramontare dell’800 tramonta la letteratura pedagogica (con Tozzi, Svevo e Pirandello). Con Il Fu Mattia Pascal si mette in crisi la funzione pedagogica della letteratura perché non è un personaggio esemplare, come non lo è Zeno Cosini e come non lo è il protagonista di Con gli occhi chiusi di Federico Tozzi.
Il tramonto della letteratura ottocentesca (che divideva personaggi buoni e cattivi, ecc) lascia spazio a questa letteratura dell’esistenza in cui il protagonista fa cose che il narratore non si sa spiegare e soprattutto non si fa portatore di un codice etico. C’è una mancanza di coerenza tra la morale e l’etica ed è proprio lì che sta l’istanza della narrazione, perché il narratore rinuncia a conferire significato alle azioni del proprio personaggio. Il messaggio al lettore non è consolatorio, non ha un fine edificante ma è totalmente amorale e lascia il lettore con delle domande alle quali non riesce a dare risposte.
In tutto ciò la critica, più che avere una funzione pedagogica, ha una funzione di mediazione dei significati tra il lettore e lo scrittore.
L’analisi che fa Pasolini de La storia entra direttamente in rapporto con l’autrice, lui parla direttamente con Elsa Morante, c’è un corpo a corpo con l’autore. Gli autori a loro volta rispondono alle affermazioni di Pasolini. La storia è un caso editoriale che scavalca la critica, non ha bisogno della legittimazione della critica letteraria. Dopo l’uscita del libro si era discusso molto del suo carattere popolare, perché aveva molto a che fare con il carattere popolare della letteratura, sul quale Elsa Morante ha investito. Lei, infatti, vuole scrivere un libro direttamente intellegibile dal lettore ma allo stesso tempo riesce a non essere superficiale, soprattutto in un momento in cui le strutture ideologiche connotano profondamente la letteratura. La Morante decide di deideologizzare la sua letteratura, vuole che il suo romanzo scavalchi l’ideologia compiendo un’operazione altamente divulgativa. L’andamento del libro è molto favolistico, recuperando l’elemento affabulatorio della narrazione che era stato totalmente rimosso dalla letteratura precedente.
L’ideologia del libro in realtà esiste ed è individuata nell’apologia delle vittime: La storia è una vicenda di vittime e di carnefici, non di destra o di sinistra. Questo destruttura completamente l’ideologia politica di quel momento ed è proprio la Morante a farlo in un momento in cui l’ideologia era il filtro per leggere opere di letteratura. Anche i Sillabari tentano un recupero del genere favolistico, presentano proprio l’attacco della favola (es. C’era una volta).
Scavalcando la dimensione ideologica della realtà queste opere approdano a valori umani, che sono prepolitici.
I Sillabari sono un dizionario dei sentimenti che, scritto negli anni ’70, rappresenta un’operazione totalmente eversiva. Parise adotta il genere della frammentazione utilizzando i sentimenti come cornice, all’interno della quale ci sono delle brevi narrazioni. Ogni racconto è formalmente autonomo, anche dal punto di vista dei significati, ma va a comporre una macro-narrazione.
Elsa Morante fa la stessa operazione di Parise ma con altri mezzi, perché lei torna ad usare il romanzo strutturato tipico dell’800 ed è un racconto sui significati generali della storia (Roma, Seconda guerra mondiale). La guerra diventa l’emblema di un processo metastorico di prevaricazione dei carnefici sulle vittime. Essendo un romanzo storico premette un paratesto prima dei capitoli della narrazione in cui scrive anno per anno che cosa succede in Italia e nel mondo e traduce al lettore medio i significati dei grandi eventi mondiali. Il narratore cerca di azzerare totalmente la distanza con il lettore, come a dire: “se le cose non le sai te lo dico io direttamente, non serve che te le vada a cercare”, come una maestra spiegherebbe ai suoi alunni (e non è un caso che sia proprio una maestra la protagonista). È proprio questo che si intende per “popolare”.
Elsa Morante fa di una donna della piccola borghesia il personaggio sulle spalle del quale posa il senso della storia e i suoi significati più grandi. Anche questa è una scelta di avvicinamento al lettore, invece la letteratura degli anni ’60 presentava una grande distanza tra autore e lettore (es. Il partigiano Johnny).
La maestra scelta dalla Morante non rappresenta un meccanismo di proiezione e identificazione, nessun lettore può sentirsi rappresentato da una maestrina di provincia perché è una figura che rappresenta la vittima che non ha riscatto. Lei usa lo strumento tradizionale del romanzo ottocentesco per costruire una narrazione e per veicolare un messaggio discontinuo rispetto alla tradizione, lo usa ribaltandone i significati. Nel corso della lunga narrazione che coinvolge il lettore emotivamente l’unico sentimento che prevale è quello dell’insensatezza della storia e di una vicenda di prevaricazione che resta letterariamente invendicata (cosa che normalmente un romanzo non fa). La narrazione normalmente è un risarcimento letterario.
In questo sta l’ideologia della Morante: lei non conferisce un risarcimento ai suoi personaggi. In quel momento sembrava un romanzo anacronistico, oggi ci sembra invece profondamente ideologico.
Il problema linguistico si pone tra il narratore e l’autore e riproduce il rapporto conflittuale tra il narratore e la società: la fatica che si prova a leggere quello che un narratore scrive è la fatica che il narratore fa per interpretare la realtà.
Il mondo bipolare eredita il trauma della Seconda guerra mondiale (comunismo vs fascismo) per cui la Morante riesce a fare un’operazione che destabilizza la critica perché propone una prospettiva lontanissima rispetto alle cose che racconta. Lei riesce a creare una narrazione con la quale mette definitivamente in ordine e chiude gran parte della storia del ‘900.