LEZIONE 10 (23 marzo 2016)
L’edizione delle fonti
La Diplomatica è nata (col Mabillon) per discernere i veri documenti dai falsi e per lungo tempo ha avuto questo obiettivo principale. Il diplomatista tuttavia studia anche i processi di documentazione attraverso il tempo, cioè le fasi della documentazione, categorie specifiche di documenti, o, più recentemente, le funzioni del documento.
Uno dei principali compiti del diplomatista è comunque fare l’edizione dei documento, cioè prendere un testo documentario scritto nel passato e con determinate caratteristiche e renderlo leggibile e fruibile per il lettore presente. Si devono pertanto compiere delle scelte: qualcosa andrà cambiato, ma molto andrà conservato.
Per affrontare l’edizione incorriamo in due ordini di problemi: 1. Quelli, di tipo filologico, legati alla tradizione del testo documentario, che può essere in originale o in copia (quindi bisogna esercitare una critica sul documento); 2. Un altro ordine di problemi riguarda la trascrizione, come primo passo dell’edizione.
1. Tradizione del
testo. Nella filologia del testo letterario, obiettivo del filologo è
ricostruire, sulla base delle copie a noi giunte, il testo che si avvicini il
più possibile al testo voluto e pensato dall’autore. Sulla base della
collazione (confronto tra le copie, individuazione degli errori,…) si
ricostruisce una sorta di albero genealogico in cui si inseriscono le varie
copie (come rami) da cui parte discese dall’originale o dall’archetipo.
Per i testi
documentari i problemi sono diversi. Di un documento possediamo l’originale
nella maggior parte dei casi, poi possiamo avere copie e copie delle copie, ma
non sono mai così tante (quando si arriva alla decina sono già molte, quindi siamo lontani dalle centinaia di copie che si possono avere invece per un testo letterario).
Può capitare che abbiamo copie e non l’originale (andato perso), ad esempio in
un cartolare, libro di un ente ecclesiastico in cui si copiavano i documenti
dell’archivio di quella abbazia, capita spesso che risulti copiato un documento
di cui non abbiamo più l’originale. Impossibile avere una recensio aperta perché l’originale è sempre il punto di partenza.
In presenza di copie di documenti letterari il filologo se è in possesso
dell’originale o archetipo usa solo quello, per il suo lavoro non serve la
copia che avrà solo errori. In diplomatica una copia, soprattutto se autentica
e convalidata, è da considerare a sé stante, è cioè un documento a sé. La copia
può avere alcune varianti di tipo linguistico rispetto all’originale ,che
possono dire molto sul contesto e sulle variazioni linguistiche, ma anche su eventuali modifiche e reinterpretazioni del documento (esempio l’imperatore dona ad un
monastero dei beni, ma in una copia compare qualche aggiunta alla donazione,
la copia rappresenta una mistificazione, quindi). Per fare l’edizione critica
bisogna prendere in considerazione anche le copie. Se c’è l’originale si pubblica
l’originale, ma si costruisce un apparato di note che tiene conto delle
modifiche (anche delle varianti linguistiche) presenti nelle copie del testo.
Il
filologo ricostruisce il testo pensato dall’autore, ma nel caso del testo
documentario chi è l’autore? Non è certo l’autore giuridico dell’atto
documentato, semmai lo è lo scrittore del documento, ma questi può non
coincidere con una solo persona (esempio in una cancelleria ci sono dictator e grossator), e comunque loro non
inventano il testo di sana pianta, si rifanno a dei formulari (manuali che
contengono dei documenti che fanno da modelli).
Ci sono ancora più problemi se
non conserviamo l’originale e dobbiamo basarci sulle copie. Non c’è copia senza
errore. Alcuni sono errori molto banali come errori di ortografia. In questi
casi, nei testi letterari, si procede con l’emendatio
(correzione), ma tale correzione va fatta con estrema cautela nel caso dei
documenti diplomatistici, perché dobbiamo correggere il meno possibile e solo
se siamo sicuri al 100% che si tratti di un lapsus (esempio: scritto iperium, invece di imperium, possiamo essere abbastanza certi che si tratti di un
errore in cui è stata dimenticata la lettera m o il titulus abbreviativo per la nasale), adottando anche procedimenti grafici per segnalare che è una correzione
fatta da noi. Altri tipi di errori vanno lasciati perché sono spie linguistiche
o di un determinato contesto in cui è stato prodotto il documento. Esempio in un monastero
beneventano: un falso modellato su esempi autentici, ma per crearlo (cercando
di riprodurre gli originali anche nelle forme) si è scritto un testo che ha una
serie di errori che denunciano gli usi linguistici del luogo in cui è avvenuta la falsificazione. Correggendo gli errori, si cancellerebbero le tracce della
falsificazione.
2. trascrizione (prima dell’edizione del testo). Una volta
che abbiamo risolto i problemi di tradizione dobbiamo trasformare la nostra fonte pergamena/libro/ … scritta a mano dal passato al presente per renderla fruibile.
In questo passaggio, bisogna per forza perdere
qualcosa, ma anche conservare il più possibile. Cosa salviamo e cosa
modifichiamo?
Salviamo assolutamente l’ortografia della nostra fonte , la quale non va in nessun modo modificata. Unica eccezione la u che ha la stessa forma con valore sia consonantico (v) sia vocalico (u): in questo caso differenziamo a
secondo del valore (possiamo trovare anche v
con questo doppio valore o e distingueremo con la u o v anche in questo
caso nella trascrizione). Ad esempio DOC. 64 (o 68). Dell’ortografia della
nostra fonte conserveremo tutto, con l’unica eccezione del segno u che andrà
differenziato (Ad esempio riga 22: aut
valuerit). Altro caso in cui non rispettiamo l’ortografia originale del
manoscritto sono le J, che andranno
trascritte come semplici i. Ad
esempio Johannes noi lo trascriveremo
Iohannes, così come le -ij finali per alcuni genitivi verranno
trascritte sempre con delle semplici -ii).
Unica eccezione: nelle scritture beneventane la legature ti a forma di 8 per il suono assibilato si trascrive tj.
Lasciamo nella forma in cui li troviamo anche i numerali. Anche se
troviamo ad esempio IIII, lasciamo le cifre romane come le
troviamo. Consideriamo anche che possiamo trovare date scritte miste, ma noi
trascriveremo ciò che è scritto in lettere in lettere, e in cifre romane ciò che è in cifre
romane. Solitamente si usa mettere il numero tra due puntini o in maiuscoletto
basso, ma riportato come lo si vede, ad esempio: .IX. / XXIIIIOR / I°.
Un’altra cosa che conserviamo e che rendiamo con opportuni artifizi grafici è
la presenza di scritture notevoli o distintive, o particolari caratteri
estrinseci del documento. Ad esempio le parti di testo scritte in litterae elongatae saranno trascritta entro due file di tre asterischi
verticali. Se ci sono lettere capitali, ad esempio il nome di un monastero o di
un’istituzione, vanno trascritte usando il maiuscoletto (forma
delle lettere maiuscola, ma corpo ridotto). Poi ci sono una serie di caratteri
estrinseci espressi attraverso delle lettere maiuscole: M (monogramma), R (rota), BV
(benevalete), SP (sigillum pendens), SPP (sigillum pendens deperditum) SI (sigillum impressum), SIP (sigillum impressum deperditum), C (chrismon), SR (signum
recognitionis), SMP (signum manu
propria), MF (monogramma firmatum);
nei documenti privati sigle analoghe: SN (signum
notarii), ST (signum tabellionatus),
+ (signa manus), # (graticci). Tutti
questi simboli e sigle vengono messi tra parentesi nelle edizioni italiane,
mentre in Germania no.
Modifichiamo invece la punteggiatura perché usiamo la nostra.
Ricordiamoci che il testo che noi trascriviamo deve essere reso leggibile e
fruibile. La punteggiatura dei testi medievali era molto variabile. L’adeguamento alla nostra punteggiatura
presuppone quindi che ci sia già un primo passaggio di interpretazione del
testo (per decidere quale sia il segno di interpunzione più adatto). Bisogna
fare attenzione però ai segni di punteggiatura della fonte che, seppur usati in
base a consuetudini diverse dalla nostra, possono aiutarci per capire la corretta ripartizione del testo. Ad esempio nel DOC. 64 (o 68),
riga 25: signa pro manibus e poi
elenco dei testimoni. Quanti sono i testimoni? Abbiamo una serie di genitivi. I
testimoni sono quattro e due sono genitivi patronimici. Questo lo capiamo
grazie ai segni di interpunzione (i punti fermi) che separano i nomi dei
testimoni tra loro.
Altra modifica che apportiamo è l’uso delle maiuscole e
minuscole. Nel Medioevo non ci sono regole precise per disciplinare questo
carattere, ad esempio i nomi propri possono iniziare con lettera
minuscola. Noi dobbiamo modificare questo carattere nel nostro uso. Vanno
maiuscole quindi: i nomi di persona e di luogo, nomi con riferimento
istituzionale come Imperator o Ecclesia, nomi di divinità quando in
posizione nominativa (attenzione, no in posizione attributiva) come: in nomine Dei, in nome Domini, in nomine
domini nostri Iesus Christi, in
nomine Patris, Filii et Spiritus sancti. C’è una sola sostanziale
differenza nell'uso delle maiuscole tra l’italiano moderno e il latino: in latino vanno sempre maiuscolo gli
aggettivi di luogo derivati dai toponimi. Ad esempio: Aquileiensis, Romanus, …
(mentre noi scriviamo chiesa udinese in minuscolo). Attenzione a sanctus/sancta, perché nel caso faccia parte di un nome proprio va in
maiuscolo, ecco alcuni esempi: San Vito (nome proprio di luogo) > Sanctus Vitus; chiesa di San Vito > ecclesia
Sancti Viti; statua di san Vito > 'san' minuscolo, perché è in posizione
attributiva.
Un’altra cosa, abbastanza ovvia, che modifichiamo è la separazione
delle parole. In molte fonti vige una sorta di scriptio continua, ma noi mettiamo le separazioni. Bisogna fare
attenzione comunque perché non è sempre banale, ad esempio posso trovare imperpetuum, in questo caso vedo l’usus scribendi per capire quale
separazione fare (se trascrivere in
perpetuum o imperpetuum). Questo
vale anche per l’ortografia da rispettare nello scioglimento delle
abbreviazioni, ad esempio p
abbreviata per prae dovrò scegliere
secondo l’uso prevalente: prae, pre, prę,
… oppure lasciare le parentesi in caso di dubbi.
Quello che noi modifichiamo
nel nostro testo sono anche le abbreviazioni, che vanno sempre sciolte. Nella
primissima trascrizione le parentesi tonde vanno lasciate per tutte la parti compendiate, come nel DOC. 65.A (o 69.A): nella primissima trascrizione vanno
lasciate le parentesi tonde e si va a capo come nel documento. Le parentesi
vanno eliminate solo nelle ultime fasi e sono da tenere solo quelle in cui non
si è sicuri dello scioglimento dell’abbreviazione (così da segnalare al
lettore la scelta fatta), o quando lo scioglimento è ambiguo (ad esempio per
troncamento e non siamo sicuri di cosa voglia dire lo scrittore: si pensi per esempio valori di monete o unità di misura locali), o quando non si sa come adeguarsi all'usus scribendi dello scrittore (ad esempio nel latino longobardo le desinenze dei casi non sono quelle della latino classico: se trovo 'not' per il nominativo, dove lo scrittore di solito usa la desinenza -os per -us, potrò sciogliere not(arioso)
al posto di notarius,
segnalando con le parentesi il dubbio).
Ci sono altri due tipi di parentesi
che possiamo usare. Con le parentesi quadre […] segnaliamo i guasti materiali del
documento (macchie, lacune, buchi del foglio) in cui il testo non è leggibile o
solo ricostruibile. In questo caso va messo tra parentesi quadre quello che
riesco a congetturare o segnalo con dei punti fermi ciò che manca, un puntino
per ogni lettera (se non riesco a ricostruire neanche il numero di lettere
allora […] uso tre puntini tra le parentesi quadre).
Le parentesi uncinate
<…> si usano per la correzione di evidenti lapsus dello scrittore (ad
esempio: i<m>perium),
in modo da denunciare che nell’originale non era così. In caso di errori si può
anche fare una nota, scrivendo che così si trova nella fonte.
Un’edizione ha due apparati di note: storico (dipende dall’editore e può contenere informazioni su personaggi e luoghi menzionati nella fonte…) e filologico (inevitabile perché descrive tutti gli accidenti del documento). Nelle note filologiche posso ad esempio segnalare una parola scritta in modo strampalato, dicendo: così A, e do conto anche di eventuali correzioni fatte nel documento dallo scrittore stesso o da mani diverse (esempio lettera scritta interlinea). Le note filologiche si indicano con lettere dell'alfabeto minuscolo tra parentesi e in esponente; in nota va scritto in corsivo tutto tranne le parole prese dal testo (es. nota (a) : imperium corretto in interlinea su ecclesia depennato).
Nell’edizione finale devo togliere le parentesi non necessarie, segnalare l’accapo con una lineetta verticale (senza andare a capo a nostra volta), scrivere regesto e titolo.
[consegna documento da trascrivere o 33bis]