Lezioni 16, 17, 18 (18, 22, 29 aprile 2016)
Attorno al XII secolo, parallelamente allo sviluppo del notariato con publica fides, si vanno sviluppando teorie e riflessioni giuridiche riguardanti tanto il valore probante del documento quanto le tipologie dello stesso (Cfr. 53). Nella glossa a una decretale di Papa Alessandro III che si occupa proprio dei caratteri che rendono il documento capace di far fede confluiscono tre distinte tradizioni giuridiche: quella tardo-antica che vedeva nei testimoni i garanti dell’autenticità del documento, quella pubblica ed ecclesiastica incentrata sul sigillo ed infine quella moderna che identificava nel notaio, la manus publica, la capacità di attribuire forza probante al documento.
La riflessione giuridico-teorica sul notariato
Irnerio
Uno dei maggiori teorici del notariato, nonché leggendario fondatore dello studium bolognese, è Irnerio. Di lui sappiamo poco e la maggior parte delle sue riflessioni ci sono giunte per via indiretta tramite Accursio ed Odofredo. Oltre al commento sulla “Lex iubemus” e le modifiche alla forma del contratto enfiteutico ad Irnerio viene attribuito un “Formularium tabellionum”, grande raccolta di formule basta sui quattro instrumenta fondamentali: compravendita, enfiteusi, donazione e testamento. Un altro formularium di area bolognese, posteriore di mezzo secolo a quello attribuito ad Irnerio, denota una differenziazione nell’ordine gerarchico che i quattro instrumenta occupano all’interno dell’opera. Il testamentoprecede la donazione e in questa ultima sono raccolte diverse tipologie contrattuali di nuova tradizione e difficilmente ascrivibili alle altre categorie.
Ranieri da Perugia
Notaio e maestro di scuola, opera a Bologna. Scrive un “liber formularius” operando una distinzione che, non passando più dai quattro instrumenta fondamentali, si basa sulla differenza tra dominio diretto (acquisizione di proprietà tramite compravendita, testamento o donazione) e dominio utile (enfiteusi, locazione, affitto, mutuo, costruzione di società).
Sua è anche una “Ars notarie”, opera suddivisa in tre parti in cui il protagonista cessa di essere il contratto in sé e diviene invece l’uomo con le sue azioni. Si distingue in quest’opera, infatti, ciò che viene fatto paciscendo (acquisizione di diritti) da ciò che viene fatto litigando (contesa e difesa di diritti già in possesso) e disponendo (disposizione di diritti come testamenti e ultime volontà).
Salatiele
Salatiele fu un notaio e giurista che entrò spesso in conflitto con la teoria degli instrumenta fondamentali e le modalità di formazione e reclutamento dei notai a lui contemporanei. L’accusa che lui, giurisperito oltre che notaio, muove al “sistema educativo” e di valutazione dei notai bolognesi è che, incentrandosi su grammatica, retorica ed apprendistato trascurava un’adeguata formazione giuridica.
Rolandino de’ Passeggeri da Bologna
Scrive una “Collectio contractum”, prima parte della sua “Summa totius artis notariae”, opera fondamentale che, dalla metà del XIII secolo, sarà il punto di riferimento di tutti i contratti. Nella “Collectio” trova poco spazio l’enfiteusi, forma contrattuale che, per ragioni economico-sociali, stava candendo in disuso nell’Italia centro-settentrionale per venire rimpiazzata da un sistema di locazione a breve termine.
Tancredi
Operante all’inizio del XIII secolo, scrive un “Ordo iudiciarius” (Cfr. 53), in cui prende in considerazione anzitutto le categorie di prove, individuate in sei differenti specie. Una di queste, l’instrumentum, permette di rilevare un aspetto particolarmente interessante. Gli instrumenta, dice Tancredi, possono essere pubblici o privati. Quelli pubblici lo sono in sei maniere diverse; anzitutto ciò che viene scritto da una “mano pubblica”, ovvero la mano del notaio definito anche, con termine ripreso dalla tradizione romana, tabellio. Vi sono poi due ulteriori riferimenti di particolare interesse. Viene definito pubblico ciò che viene inserito negli acta pubblici, un riferimento alla pratica dell’insinuatio apud acta e, aspetto non meno importante, è pubblico quell’instrumentum, inserito in un archivio pubblico.
Tradizione dei testi documentari.
Fasi complementari di documentazione. Minuta e copia
La pratica di minutazione è sicuramente più tipica del documento privato che di quello pubblico. Per quest’ultimo abbiamo attestazioni di minute soltanto per il periodo basso-medievale. In età carolingia, tuttavia, era presente la pratica di scrivere appunti sul bordo della pergamena che sarebbe poi stato ritagliato una volta ultimata la stesura in mundum. Possiamo poi ipotizzare che forme di minute fossero presenti nelle cancellerie dove il dictator (colui che elabora i testi) e il grossator (colui che materialmente scrive il documento) erano ruoli separati, ricoperti da due distinte persone. Minute non venivano sicuramente stese nel caso di documenti di riconferma di concessioni precedenti.
Nella prassi di documentazione privata la situazione è radicalmente diversa. Non solo, infatti, è attestata la pratica di minutazione ma la minuta stessa, col passare del tempo e con l’affermazione del notariato con publica fides, diverrà il documento originale.
Nella costituzione giustinianea “De fide instrumentorum” si fa menzione della scheda. Questa doveva essere verosimilmente un foglio di pergamena in cui venivano presi alcuni appunti utili alla stesura del documento privato. Giustiniano, tuttavia, sancisce che la sola scheda non ha alcuna valenza probante.
Altra pratica di minutazione diffusa in ambito di documentazione privata è la cosiddetta notizia dorsale. Si trattava di appunti scritti sul verso della pergamena su cui verrà scritto il mundum. Non sappiamo con certezza se tra la notazione dorsale e la bella copia ci fossero delle ulteriori fasi intermedie. Ciò che è certo è che da una notizia dorsale qualsiasi notaio, non soltanto chi l’aveva vergata, potrà trarre il mundum del documento (Cfr. 54). Non c’è, in questa fase, ancora sufficiente chiarezza sul valore probante delle notizie dorsali e, pertanto, delle stesse minute.
Solo dalla metà del XII secolo prenderà
piede la pratica di conservare le minute redatte sotto forma di libro, il
registro di imbreviature (noto anche come “protocollo”, “imbreviature” o
“note”). Questa prassi, originatasi all’interno del notariato, diviene
obbligatoria per intervento delle autorità cittadine, con i registri di
imbreviature che, alla morte di un notaio, possono devono passare ad un altro.
Il cartolare di Giovanni Scriba (cfr. 55)
Si tratta del più antico libro di imbreviature, risalente alla metà del XII secolo e composto dal notaio genovese Giovanni Scriba. Vengono raccolte nella stessa facciata minute di diversi contratti. Non ci troviamo davanti alla stessa quantità di informazioni fornite dalla stesura in mundum poiché molte formule standard per una determinata tipologia contrattuale vengono omesse. Le voci cassate con tratti penna trasversale possono indicare sia la redazione della bella copia sia la cessazione, per motivi temporali o di accordo tra le parti, delle obbligazioni sancite dal contratto.
Il valore della minuta
In epoca di notariato con publica fides non è automatico il passaggio semantico da una concezione puramente filologica di rapporto tra originale e copia ad una giuridica. Sebbene già dalla metà del XII secolo glossatori come Mattarelli cominciassero a concepire la minuta come originale (termine fino ad allora riservato, filologicamente, al documento in mundum) soltanto con a riflessione di Rolandino de’ Passeggeri abbiamo una vera e propria inversione di tendenza (cfr. 53). Se prima di Rolandino la distinzione che intercorreva fra originalis/autenticum (modello) ed exemplar/exemplum (copia) era basata solo sugli aspetti filologici della trasmissione del documento, con l’intervento del notaio bolognese si ha una totale risemantizzazione. L’exemplar diviene il modello filologico e l’exemplum la sua copia con quella che è, però, una complicazione a livello giuridico. Il lessico dell’originalità filologica (originalis/autenticum) slitta al piano giuridico abbinandosi univocamente all’exemplar. Solo quest’ultimo quindi sarà originalis, intendendo con questo termine la capacità di avere valore in sede di giudizio, di “fare fede”.
Tipologie di copie
Semplici: semplici trascrizioni con varie finalità. Sono prive di valore giuridico.
Autentiche: affinché una copia abbia gli stessi effetti dell’originale necessita di una convalida. Se non viene tratta dalla stessa cancelleria che ha redatto l’originale si possono usare diversi metodi. Si poteva ricorrere ad un sigillo o ad una dichiarazione di una pubblica autorità che dichiarava di aver preso visione del documento originale riportandolo dopo la formula vidimus (da cui vidimare). Nel caso di documenti privati si poteva ricorrere ad un notaio o ad una pubblica autorità. (cfr. 56). PANI: chiaramente fino a quando il notariato non ha publica fides la copia di un documento fatta da un notaio non ha piena capacità probante, come un documento originale scritto da un notaio. Con la nascita del notariato propriamente detto la copia autentica di un documento fatta da un notaio e da lui sottoscritta ha la stessa capacità probante del documento notarile originale.
Imitative: vengono riprodotti in tutto o in parte anche i caratteri estrinseci come scrittura, signa, monogrammi. Possono essere sia semplici che autentiche.
Un caso particolare è quello degli inserti (cfr. 57). Si
tratta di documenti trascritti, per svariati motivi, all’interno di altri
documenti. Inserti si possono trovare nei documenti di conferma, nei contratti
tra privati che agiscono tramite procuratori (in questo caso può venire riportato l’atto
di nomina del procuratore). Anche la pratica dell’ostensio
chartae può essere uno dei casi in cui troviamo un inserto, cioè un documento (la charta) trascritto all'interno di un altro documento (la notitia iudicati) considerata una modalità di inserto. Nel caso in cui il
documento venga riportato non nella sua interezza ma sotto forma di riferimenti
(estremi del testo) o solo parzialmente ci troviamo davanti ad un transunto.
Documenti inserti si possono trovare anche dentro testi letterari (cfr. 58).
Copie in cartolari e registri
Il cartolare è un libro che raccoglie copie di documenti facenti parte dell’archivio dell’istituzione che lo produce. I fini possono essere di conservazione, creazione o tutela della memoria storica o dei propri diritti. Un esempio possono essere i libri traditionum dei monasteri tedeschi, risalenti al IX-X secolo, redatti con l’intento di raccogliere e copiare i documenti i donazione ricevuti dal monestero. Altro esempio è il Regesto di Farfa (cfr. 59 a-b). Nonostante le dichiarazioni di principio dei redattori dei cartolari, che dichiaravano di non aggiungere o sottrare nulla all’originale e di integrare coerentemente le lacune causate dal tempo, non è raro che vengano effettuate modifiche più o meno in buona fede. Pertanto le copie dei cartolari non vanno considerate totalmente fedeli.
I libri iurium sono cartolari di istituzioni pubbliche, tipicamente comunali. Raccolgono e attestano le concessioni di diritti ricevute dal Comune nel corso della sua esistenza. Prevale in questa forma di collezione di copie la finalità giuridica e, pertanto, si ricorre a notai che non si limitano a trascrivere il documento in maniera più o meno imitativa, ma aggiungono la propria autenticazione. Non è inusuale trovare in queste raccolte documenti originali allegati. Era pratica comune, infatti, aggiungere le concessioni e i documenti successivi direttamente al nucleo originale del liber, costituito da copie. I libri iurium possono avere un nome specifico a seconda della città, generalmente basato sulle caratteristiche esteriori (es. Bologna, Registro grosso; Ascoli, Quinternone, cfr. 60).
Il cartolare nasce dunque nell’archivio del destinatario dei documenti, a differenza dei registri che vedono la luce “a monte” nella cancelleria dell’autorità emittente.
I registri
I registri sono le raccolte di trascrizioni, integrali o per punti principali, dei documenti emessi dalla cancelleria che li produce, con il fine di tenere traccia dell’attività politica di una cancelleria. Erano particolarmente utili ad un’autorità per risalire, nel caso di richieste di riconferma, ai documenti emessi dai propri predecessori. I registri hanno il proprio antesignano nei regesta imperiali, trascrizioni delle disposizioni emesse dagli imperatori romani, giunte a noi solo per tradizione indiretta.
Nel periodo medievale la pratica di registrazione non sempre viene seguita rigorosamente o regolamentata. Ad esempio gli Ostrogoti conservarono certe pratiche della cancelleria imperiale a differenza dei Longobardi che non registravano nulla e dei Franchi che registravano in maniera parziale solo singole disposizioni. Solo con Federico II e i re angioini si avrà una maggiore frequenza ed incidenza della pratica di registrazione. In ambito ecclesiastico la pratica di registrazione è decisamente risalente nel tempo (si veda il registro delle lettere di Gregorio Magno) ma a noi sono pervenuti in serie completa e grossomodo ininterrotta i registri solo dal pontificato di Innocenzo III (1198-1215). Inizialmente l’ordine è cronologico (cfr. 61 a) e solo in un secondo momento (61 b) si pensa di creare registri tematici come i “Regesta domini Innocentii papae III super negotio Romani imperii”, raccolta che contiene i documenti sia emessi che ricevuti dal pontefice in realzione ai rapporti con l’Impero.
Un caso di tradizione (cfr. 63)
Il documento in questione è un diploma imperiale del secolo XI, con cui Enrico III concede, su richiesta del vescovo di Torino, alla chiesa di Bergamo la contea gravitante attorno alla città. B1 e B2 sono copie autentiche del secolo successivo, parzialmente imitative. B3 e C, esemplato da B1, sono copie semplici conservate in cartolari. Il documento originale, tuttavia, è un falso, come dimostrano le incongruenze linguistico lessicali, la sottoscrizione di Enrico III, mancante del titolo imperiale, le discrepanze tra il periodo di carica del notaio (1045) e dell’arci-cancelliere (1039-1045) e la data del documento (1041), nonché l’indizione e la formula humilitatis di servus servorum Dei attribuita all’imperatore. Il falso deve essere stato realizzato da un chierico torinese dell’XI secolo pratico dei diplomi della cancelleria di Enrico III. B1, copia autentica risalente al regno di Federico I, non è un falso né a livello ideologico né a livello materiale poiché eseguita “in buona fede” dalla cancelleria del Barbarossa.
Falsità documentaria
I documenti possono essere, dunque, falsi sia a livello materiale (le varie forme di contraffazione) sia a livello ideologico (dichiarazione di falso nel contenuto). Il documento A sarebbe quindi falso sotto ogni punto di vista dal momento che viene prodotto da una mano diversa da quella dichiarata nella sottoscrizione dichiarando, peraltro, il falso nel suo contenuto. Non tutti i documenti falsi, tuttavia, sono sempre allo stesso tempo falsi ideologici e materiali. L’imperatore Carlo IV, ad esempio, fa incoronare il figlio Venceslao. Si dimentica di chiedere al papa il permesso per l’incoronazione. Fa quindi redigere un documento dalla cancelleria retrodatandolo di sei mesi. La falsità in questo caso è ideologica ma non materiale. Se un ente ecclesiastico copiasse un documento riproducendo i caratteri estrinseci ed intrinseci senza alterarne il contenuto ci troveremmo davanti un falso materiale ma non ideologico.