Texte n° 3, pour le 15 mars 2018
La maggior parte delle donne e degli uomini che vivevano allora non sapevano di vivere in Europa, e non avevano un'idea chiara di dove fossero. L'Europa, per i Greci e anche per i Romani, era innanzitutto una dea: una giovane donne dalle forme perfette. Dice la leggenda che la sua bellezza aveva fatto innamorare Zeus, il signore dell'universo che i Romani chiamavano Giove. Un giorno, mentre Europa era in riva al mare, Giove le si avvicinò sotto le sembianze di un toro dal pelame lucente. Lei gli salì in groppa e il toro la rapì portandola nel suo mondo. Come poi dal mito si sia passati alla geografia non è dato sapere: è certo, comunque, che già all'epoca della nostra storia la parola Europa indicava "la terza parte del mondo" in alternativa all'Africa e all'Asia; e che veniva usata con questo significato da autori come Plinio il Vecchio e Tito Livio. I suoi confini erano incerti perché anche l'Asia e l'Africa non si sapeva bene dove incominciassero e dove finissero; e perché l'Europa di allora era così grande, da poter essere il mondo.
Sebastiano VASSALLI, Terre selvagge, Milano 2014, p. 8.
Texte n° 4, pour le 5 avril 2018
Più di settant'anni fa, verso il 1910, mia madre ha attraversato le pianure su un carretto, assieme ai fratelli, il mobilio, i genitori. I luoghi che ha attraversato a quei tempi dovevano essere pieni di paludi e moltissimi paesi forse non esistevano ancora. Dove non incontravano paludi forse trovavano maceri di canapa o risaie. Le strade dovevano essere poco più larghe dei viottoli tra i campi, con molti gelsi e olmi, probabilmente pochissimi pioppi a quei tempi, forse zone di farnie e lecci.
Il viaggio deve essere durato un giorno e una notte, o forse più. Mio nonno e mai nonna erano sarti, avevano con sé cinque bambini, tre maschi e due femmine; mia madre doveva avere allora sette o otto anni.
Quando sono arrivati alle porte della città, devono aver attraversato una bella piazza, e aver visto la chiesa e l'alto campanile con l'orologio, il ponte sul canale.
Al di là del ponte c'erano le mura e una porta d'ingresso alla città, che si chiudeva al tramonto come tutte le altre porte della città, immagino. Qui doganieri controllavano i carichi dei viandanti. Forse i doganieri li hanno fatti scendere tutti dal carro, per controllare che ci fossero merci di contrabbando tra i mobili.
Prima di farli entrare in città i doganieri hanno detto: "Ma perché venite a stare qui? In campagna si sta meglio, si vive beati. Non lo sapete che in città l'aria è cattiva, c'è sempre chiasso, e il sole non riesce mai ad andar giù all'orizzonte?"
Da Gianni CELATI, Narratori delle pianure, Milano 1985.
Texte n° 5 pour le 18 aprile 2018
Carro Sera, sono una signora di 80 anni e vorrei che lei mi aiutasse a capire quel che sta succedendo. Frequento molto i mezzi pubblici, metro e autobus. Ho notato con sgomento che spesso in una sola carrozza tutti, dico tutti, hanno la testa sul cellulare e quando salgono e scendono i loro occhi non si staccano mai dall'apparecchio. Lo uso anch'io il cellulare, quando serve. Lo stesso avviene per le strade. Tutta questa gente, ma soprattutto i giovani, non vede nulla di quello che ha intorno, alberi, persone, vetrine, fiori, disabili a cui cui rapportarsi, un mucchio di cose su cui riflettere, o intervenire, partecipare.
Che ne sarà della loro vita, della loro cultura, della loro maturazione? Si isolano in un mondo fatuo che li esclude dal mondo reale in cui devono vivere. Quand'ero giovane camminando assaporavo l'arrivo della primavera, guardando i fiori in boccio, le foglie che spuntavano e tutto il risveglio della natura, anche se è una cosa difficile in una città come Milano.
Ho viaggiato nella mia vita, sempre con gli occhi e l'animo attento a quel che vedevo. Mai ho visto una mania collettiva per cellulare come in Italia. Come mai? E vorrei passare al linguaggio degli sms. Perché kane o kassetto è più "in" di cane o cassetto?
Annita Conte, in «Il Venerdì di Repubblica», 19 luglio 2013.
Texte n° 6 pour le 3 mai 2018
La sfida dell'architettura è salvare le periferie
"La missione dell'architettura in questo secolo è salvare le periferie. Se non ci riusciamo sarà un disastro, non solo urbanistico, ma anche sociale". "Ognuno - racconta Piano - viene da un luogo che lo ispira. Poi naturalmente quando lavori in una città devi diventarne parte, per sentirla e capirla, ma l'origine resta il punto di partenza. Io sono nato e cresciuto a Genova, una città mediterranea, e questo ha influenzato la mia vita"., /[.. ]"Io sono cresciuto in periferia, e non vedevo l'ora di scapparne". [.../] Piano lo ha fatto, con enorme successo, eppure adesso torna alle sue radici personali per indicare la strada dell'architettura nel prossimo secolo: "Durante gli anni Sessanta, Settanta, anche Ottanta, in Europa la missione era salvare i centri storici. Ci siamo riusciti, e l'abbiamo fatto bene. Ora, però, la missione di questo secolo deve essere salvare le periferie". Ormai le nostre città sono piene di questi luoghi dove il centro non è più centro, e la campagna non è ancora campagna. Invece di continuare ad espanderli così, dobbiamo intensificare i nostri centri urbani, fecondando e fertilizzando le periferie. Ovunque ci sono grandi buchi neri da recuperare e trasformare, in modo che questi sobborghi diventino luoghi di civiltà, e non solo posti dove si va a dormire. capisco che con i centri storici era più facile, perché sono fotogenici, ma anche i sobborghi hanno la loro bellezza. La bellezza dei desideri di milioni di esseri umani che li abitano, e dobbiamo aiutarli a realizzare". Anche in Italia, dove Piano è orgoglioso dei progetti di recupero delle periferie avviati a Catania, Roma e Torino.
Paolo Mastrolilli, in «La Stampa», 13.03.2015